Aggressività, rabbia e violenza giovanile
I recenti fatti di cronaca – 2 omicidi negli stadi - ci interrogano ancora una volta: dietro differenti credo ideologici, cosa spinge un giovane ad accanirsi con violenza contro un’altra persona? Gli omicidi in questione sono avvenuti in un contesto spettacolarizzato come si presenta quello di uno stadio alla fine di una partita, davanti a una moltitudine di spettatori: il gruppo-branco, la polizia schierata, le telecamere che hanno trasmesso più volte l’immagine del poliziotto in barella trasportato via tra i tafferugli. C’è un filo in comune con la violenza trasmessa in rete, agita tra compagni di classe su un insegnante o un compagno disabile e con tutti i fatti simili di quest’ultimo periodo che coinvolgono baby-gang e minori? Potremmo definirlo “faccio, dunque sono” o “appaio, dunque sono”. C’è una generazione, oggi, che sembra fare di tutto per farsi notare, costi quel che costi. Se l’aggressività, intesa come spinta fisiologia e sana ad “aggredire” il mondo, ad attivarsi energicamente per garantirsi la sopravvivenza e l’auto-affermazione, degenera in violenza, occorre interrogarsi su quali siano i bisogni sottostanti non espressi e non adeguatamente accolti. Aggressività, infatti, non equivale a violenza. L’aggressività è una pulsione che predispone l’individuo a lottare per la conservazione di sé. Il vissuto psichico collegato è la rabbia, che segnala che qualcosa o qualcuno minaccia di limitare la propria libertà d’azione, il proprio diritto ad affermarsi e che può essere gestita e manifestata in una grande varietà di modi. Se colta, ascoltata e correttamente utilizzata, la rabbia predispone l’individuo ad attivarsi costruttivamente per ripristinare il confine che è stato violato. Ma questo processo implica 2 condizioni: 1. che gli adolescenti facciano i conti con dei confini, ossia con dei limiti; 2. che gli adulti siano capaci di rispecchiare i vissuti di rabbia dei ragazzi, accogliendoli e parlandone senza per questo svalutare i limiti posti, le regole date, sostenendo i ragazzi nell’imparare a fare i conti con essi. Affinché i più giovani acquisiscano capacità di autocontrollo sui propri impulsi, affinché possano costruirsi una solida identità personale che dia loro un senso di pienezza, occorre quindi che la generazione adulta fornisca una “palestra protetta” dove allenarsi nel fare i conti con dei limiti sani a quella vitalità che, altrimenti, rischia di diventare una vuota e pericolosa illusione di onnipotenza.
Michela Carmignani
Pubblicato su “il quartiere”, febbraio 2007 |